Celiachia: la svolta delle cellule T

La celiachia colpisce milioni di persone nel mondo e, ad oggi, l’unica cura è una rigida dieta priva di glutine. Ma una nuova sperimentazione condotta in Svizzera apre la strada a una possibile rivoluzione terapeutica: cellule T ingegnerizzate potrebbero insegnare al sistema immunitario a tollerare il glutine.

Una nuova frontiera per la celiachia: educare il sistema immunitario al glutine

Istruire’ il sistema immunitario delle persone celiache a tollerare il glutine: è questa l’ambiziosa missione delle cellule T ingegnerizzate, secondo una recente sperimentazione condotta dai ricercatori del Centre Hospitalier Universitaire Vaudois di Losanna e pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine.

Anche se siamo ancora nelle fasi iniziali della ricerca, gli approcci basati sulla terapia cellulare – parte della medicina rigenerativa – potrebbero rappresentare una svolta per una condizione diffusa, debilitante e finora priva di cura definitiva.

Celiachia: una malattia autoimmune in crescita, soprattutto in Italia

La celiachia colpisce circa l’1% della popolazione mondiale e si manifesta quando il sistema immunitario reagisce alle proteine del glutine presenti in alimenti come pane e pasta, provocando infiammazione e danni all’intestino.

In Italia, secondo il Ministero della Salute, i casi diagnosticati sono oltre 224.000, ma si stima che i celiaci non consapevoli della propria condizione siano almeno 350.000.

Il nostro Paese è tra quelli con la più alta prevalenza di celiachia al mondo, con una netta prevalenza tra le donne e un numero significativo di diagnosi anche tra bambini e adolescenti.

Una malattia curabile ma non guaribile

La celiachia è una malattia autoimmune cronica che colpisce soggetti geneticamente predisposti.

Il glutine – presente in cereali come grano, segale e orzo – scatena nei pazienti sintomi come diarrea, malassorbimento, perdita di peso e, nei bambini, ritardi nella crescita.

Non si tratta di un’allergia, ma di un’intolleranza alimentare permanente – spiega Yannick Muller, responsabile del Polo Allergia e Terapie Cellulari del CHUV – attualmente non esistono farmaci o cure in grado di prevenire o guarire la celiachia. L’unica opzione terapeutica è una dieta rigorosa priva di glutine”.

Tuttavia, anche con la dieta, molti pazienti continuano a soffrire e affrontano conseguenze psicologiche e sociali non trascurabili.

La terapia cellulare: una speranza concreta

In questo contesto si inserisce la ricerca di Raphaël Porret e del suo team, che hanno voluto testare se la terapia cellulare – già utilizzata per trattare tumori e rigetto da trapianto – potesse “riprogrammare” la risposta immunitaria al glutine.

“Abbiamo ingegnerizzato cellule T effettrici e cellule T regolatorie prelevate da topi, rendendole capaci di riconoscere il glutine – racconta Muller – poi le abbiamo infuse e osservato se le cellule T regolatorie fossero in grado di inibire l’attivazione delle cellule effettrici”.

Cellule effettrici e regolatorie: come funzionano

Le cellule T effettrici sono quelle che attaccano virus, batteri e cellule infette: sono le “soldatesse” del sistema immunitario. Al contrario, le cellule T regolatorie (Treg) hanno il compito di mantenere l’equilibrio, spegnendo le risposte immunitarie una volta terminata la minaccia.

Nel caso delle malattie autoimmuni – come la celiachia – il sistema immunitario non riconosce il glutine come innocuo, attaccando così il proprio organismo.

L’idea alla base della ricerca è utilizzare cellule Treg ingegnerizzate per spegnere questa risposta, prevenendo i danni.

Risultati promettenti nei modelli animali

Durante l’esperimento, è emerso che in assenza di cellule Treg ingegnerizzate, l’ingestione di glutine induceva le cellule T effettrici a migrare verso l’intestino. Al contrario, quando le cellule regolatorie venivano somministrate insieme a quelle effettrici, la risposta immunitaria si attenuava: le cellule effettrici non migravano e non proliferavano in risposta al glutine.

Questo risultato, pur limitato a modelli animali non perfettamente sovrapponibili all’uomo, rappresenta una solida “prova di concetto” che suggerisce come la tolleranza al glutine potrebbe essere indotta artificialmente.

Le sfide per il futuro: dalla sperimentazione animale all’uomo

Quali ostacoli si frappongono tra questa scoperta e una possibile terapia per l’uomo? Secondo Muller, le principali sfide riguardano la produzione delle cellule Treg e i relativi costi, oltre alla necessità di convincere le autorità sanitarie dell’utilità clinica della terapia, vista l’attuale efficacia della dieta priva di glutine.

“L’eliminazione del glutine funziona – ammette Muller – ma è spesso associata a patologie refrattarie, stress, isolamento, affaticamento cronico e riduzione della qualità della vita”.

I tempi? Si parla di almeno 3-5 anni prima di iniziare sperimentazioni cliniche sull’uomo.

Oltre la celiachia: nuove prospettive per altre malattie autoimmuni

L’approccio con cellule Treg ingegnerizzate potrebbe avere applicazioni anche in altre patologie autoimmuni, come il diabete di tipo 1. “Per la celiachia, la specificità dei recettori (TCRs) per le cellule T è già ben definita – conclude Muller – mentre per altre patologie resta da identificare con precisione”.

I possibili rischi della terapia con cellule Treg

Dal punto di vista della sicurezza, le terapie con cellule regolatorie T ingegnerizzate sembrano promettenti.

Le CAR-Treg sono ben tollerate e non mostrano effetti collaterali gravi – spiega Giuseppe Pantaleo, della Divisione di Immunologia dell’Ospedale Universitario di Losanna – e attualmente non esistono strategie innovative altrettanto efficaci.

Per ora, l’unica opzione resta l’eliminazione del glutine dalla dieta”.

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Sopravvive 100 giorni con un cuore artificiale, una svolta per la medicina

In Australia si apre un nuovo capitolo nella medicina: un paziente con insufficienza cardiaca grave ha trascorso diverse settimane con un cuore artificiale, in attesa di trapianto, senza riportare complicanze.

Un traguardo medico senza precedenti

Un uomo australiano di circa 40 anni è diventato la prima persona al mondo a essere dimessa da un ospedale con un cuore completamente artificiale in titanio, che ha funzionato per oltre 100 giorni.

A inizio marzo, il paziente è stato poi sottoposto a un trapianto e ha ricevuto un cuore da donatore.

Il dispositivo viene utilizzato come soluzione tampone per persone con gravi patologie cardiache in attesa di un donatore compatibile.

Il cuore artificiale BiVACOR e il primato dell'australiano

L’australiano è la sesta persona al mondo a ricevere il cuore in titanio BiVACOR, ma è il primo a conviverci per più di un mese e, soprattutto, a essere stato dimesso: gli altri cinque pazienti erano rimasti ricoverati in osservazione in diversi ospedali degli Stati Uniti.

Secondo la dichiarazione del St Vincent’s Hospital a Sydney, dove sono state eseguite entrambe le operazioni, l’uomo sta bene e si sta riprendendo.

Come funziona il cuore artificiale in titanio

Il cuore artificiale totale BiVACOR, inventato dall’ingegnere biomedico australiano Daniel Timms, originario del Queensland, utilizza la stessa tecnologia dei maglev, i treni superveloci a levitazione magnetica, per replicare il flusso sanguigno naturale di un cuore sano.

Il dispositivo, grande quanto un pugno, non subisce usura meccanica: l’unica parte che si muove è un piccolo rotore che levita senza toccare alcuna superficie. Questo evita l’attrito, riducendo il rischio di usura del materiale.

Un cordone incanalato sotto la pelle collega il dispositivo a un telecomando esterno portatile, che funziona a batterie di giorno e può essere collegato alla rete elettrica di notte.

Il cuore in titanio è in grado di far scorrere il sangue fino a un ritmo di 12 litri al minuto, una gittata cardiaca sufficiente a garantire l’esecuzione di un’attività fisica moderata in un uomo adulto. Inoltre, a differenza dei dispositivi tradizionali a pompe volumetriche, che generano un flusso costante, il cuore BiVACOR bilancia il flusso sanguigno tra il ventricolo destro e quello sinistro, riducendo il rischio di ipertensione polmonare o arteriosa.

Un'innovazione per pazienti con insufficienza cardiaca terminale

L’impianto, ancora nelle prime fasi dello studio clinico, è stato progettato per pazienti con insufficienza cardiaca biventricolare allo stadio terminale.

Questa condizione si sviluppa solitamente dopo che altre patologie, come infarti, coronaropatia o diabete, hanno danneggiato il cuore fino a impedirne il normale funzionamento.

La storia del paziente australiano

Il destinatario australiano di BiVACOR soffriva di una grave insufficienza cardiaca e si è offerto volontario per ricevere il dispositivo in titanio. 

A novembre è stato sottoposto a un intervento chirurgico di sei ore e, a febbraio, è stato dimesso dall’ospedale.

Successivamente, ha vissuto in una residenza nei pressi dell’ospedale, conducendo una vita relativamente normale fino a marzo, quando ha ricevuto un cuore da donatore.

Le sperimentazioni precedenti e future

Negli Stati Uniti, nel corso dell’ultimo anno, altri cinque uomini tra i 40 e i 60 anni hanno ricevuto versioni precedenti del dispositivo BiVACOR.

Tuttavia, il periodo più lungo di utilizzo prima del trapianto è stato di 27 giorni, e tutti e cinque i pazienti sono rimasti sotto osservazione in ospedale.

Ora, la Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato l’estensione della sperimentazione ad altri 15 pazienti.

Tuttavia, il trattamento non sarà disponibile al grande pubblico in tempi brevi, a causa dei costi elevati del dispositivo e dell’alto rischio dell’intervento chirurgico.

Il cuore artificiale per i bambini

In Italia, nel 2018, una bambina di tre anni ha ricevuto un mini cuore artificiale delle dimensioni di una batteria stilo, alimentato da un dispositivo esterno.

Anche in questo caso, il device, progettato per bambini fino ai 10 anni, è stato utilizzato come soluzione temporanea in attesa di trapianto.

Questi progressi nella tecnologia dei cuori artificiali rappresentano una svolta per i pazienti con insufficienza cardiaca terminale, aprendo la strada a nuove possibilità terapeutiche per coloro che sono in attesa di un trapianto.

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Nuove prospettive per il trattamento del tumore alla prostata.

Uno studio condotto dall’Istituto Europeo di Oncologia ha evidenziato che l’integrazione di una breve terapia ormonale con la radioterapia stereotassica può raddoppiare la sopravvivenza senza progressione della malattia.

La scoperta: una combinazione efficace

Uno studio dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), pubblicato sulla rivista Lancet Oncology, ha dimostrato che la combinazione di una breve terapia ormonale con la radioterapia stereotassica raddoppia la sopravvivenza senza progressione della malattia nei pazienti con tumore alla prostata.

Questo approccio si è rivelato particolarmente efficace quando, anni dopo il trattamento iniziale (chirurgia o radioterapia), la malattia si ripresenta con poche metastasi, un fenomeno noto come oligometastasi.

La ricerca e il team di esperti

Lo studio è stato sostenuto dalla Fondazione Airc per la Ricerca sul Cancro e coordinato dalla professoressa Barbara Alicja Jereczek-Fossa, direttrice della Divisione di Radioterapia dello IEO e professore ordinario all’Università Statale di Milano. Ha collaborato con lei la dottoressa Giulia Marvaso, radioterapista oncologa dello IEO e prima autrice dell’articolo.

Lo studio Radiosa: metodologia e risultati

Denominato Radiosa, lo studio è una sperimentazione clinica randomizzata di fase II, durata complessivamente cinque anni. Sono stati arruolati e trattati 102 pazienti con oligometastasi da carcinoma prostatico, con un’età media di 70 anni.

I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi:

  • Un primo gruppo trattato con la sola radioterapia stereotassica.
  • Un secondo gruppo sottoposto a radioterapia stereotassica associata a una breve terapia ormonale.

I risultati hanno evidenziato che i pazienti del secondo gruppo hanno ottenuto una sopravvivenza senza progressione della malattia di 32 mesi, rispetto ai 15 mesi registrati nel primo gruppo.

Un cambio di paradigma nel trattamento del carcinoma prostatico

“I risultati dello studio Radiosa rappresentano un significativo passo avanti nel trattamento del carcinoma prostatico oligometastatico – spiega la professoressa Jereczek –. Questa strategia combinata potrebbe migliorare i risultati clinici e la qualità della vita dei pazienti”.

Se confermati da studi più ampi, questi dati potrebbero portare a un cambio di paradigma nella gestione della neoplasia metastatica. Si potrebbe infatti passare da una terapia farmacologica continuativa e a vita a un trattamento più flessibile, basato su cicli di terapie ormonali brevi e intermittenti associate alla radioterapia stereotassica.

Cos’è la radioterapia stereotassica?

La radioterapia stereotassica, nota anche come radiochirurgia o radioablazione (quando eseguita in una sola seduta), sta rivoluzionando il trattamento della malattia metastatica.

“Si tratta di un trattamento non invasivo, ambulatoriale e compatibile con la normale vita quotidiana – spiega Jereczek –. Per alcuni pazienti selezionati, la radiochirurgia può sostituire la terapia farmacologica, offrendo una ‘vacanza dai farmaci’. In altri casi, in cui il paziente è già in trattamento farmacologico, permette di agire direttamente sulle metastasi attive, mantenendo il controllo su quelle latenti grazie ai farmaci”.

Secondo gli esperti, la combinazione tra terapie farmacologiche e radioterapia rappresenta una nuova frontiera per migliorare la qualità della vita e aumentare l’efficacia delle cure.

L’impatto sulla qualità della vita

Lo studio Radiosa non si è limitato solo a valutare l’efficacia del trattamento sulla progressione della malattia, ma ha incluso anche specifici obiettivi sulla qualità della vita.

Questa parte della ricerca è stata coordinata dalla professoressa Gabriella Pravettoni, direttrice della Divisione di Psiconcologia dello IEO, e ha coinvolto diversi esperti:

  • Il professor Giuseppe Petralia e l’ingegnere Maria Giulia Vincini per l’analisi delle immagini radiologiche.
  • Il professor Nicola Fusco e il dottor Mattia Zaffaroni per le analisi molecolari.

L’approccio multidisciplinare dello studio ha permesso di ottenere una visione più completa dell’impatto del trattamento sui pazienti.

Un riconoscimento internazionale per la ricerca

“La pubblicazione su The Lancet Oncology – sottolinea il professor Roberto Orecchia, direttore scientifico dello IEO – è un riconoscimento importante per il nostro impegno nell’innovazione oncologica. Il nostro obiettivo non è solo allungare la vita dei pazienti, ma migliorarne la qualità, consentendo loro di mantenere una quotidianità normale anche in fase metastatica”.

Verso una nuova era nella cura delle metastasi

Concludendo, lo studio Radiosa dimostra che oggi non vi è più differenza tra il trattamento di un tumore primario e quello delle metastasi.

L’obiettivo futuro potrebbe diventare la guarigione dalle metastasi, almeno per alcuni tipi di tumori, tra cui il carcinoma prostatico.

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Veneto in testa, Toscana seconda: la classifica delle Regioni sulla sanità

Le classifiche definitive del “Sistema di garanzia” del ministero della Salute confermano la Toscana al secondo posto e l’Emilia-Romagna al terzo. La valutazione si basa su tre indicatori principali, mentre otto Regioni risultano insufficienti in almeno uno di essi.

Il confronto tra le Regioni

Il Veneto supera la Toscana nella classifica del sistema di valutazione delle Regioni elaborata dal ministero della Salute, noto come “Sistema di garanzia”. La Lombardia, invece, rimane lontana dalle prime cinque posizioni, piazzandosi settima. Questa volta i dati sono definitivi: nel novembre scorso, infatti, il capo della Programmazione del ministero, Americo Cicchetti, aveva anticipato una classifica provvisoria durante un congresso, scatenando polemiche, soprattutto da parte della Lombardia.

Nonostante il ministero sostenga che i numeri non servano per stilare graduatorie, è proprio a queste che le Regioni guardano con attenzione. Anche quest’anno ci si aspetta comunicati ufficiali da parte di coloro che occupano le posizioni migliori.

La classifica ufficiale

Il ministero valuta tre indicatori principali: attività ospedaliera, prevenzione e assistenza distrettuale. A ciascuno di questi viene assegnato un punteggio basato sulla qualità assistenziale della Regione, fino a un massimo di 100 punti. Sommando i voti ottenuti nei tre settori, si ottiene la classifica generale:

  1. Veneto – 287,1
  2. Toscana – 285,6
  3. Provincia di Trento – 277,9
  4. Emilia-Romagna – 277,4
  5. Piemonte – 269,7
  6. Umbria – 258,1
  7. Lombardia – 256,7
  8. Marche – 247,5
  9. Friuli Venezia Giulia – 235,4
  10. Puglia – 227,5
  11. Liguria – 219,3
  12. Lazio – 216,4
  13. Campania – 204,7
  14. Provincia di Bolzano – 201,7
  15. Molise – 192,5
  16. Sardegna – 192,3
  17. Basilicata – 189,3
  18. Abruzzo – 182,3
  19. Sicilia – 172,5
  20. Valle d’Aosta – 165,0
  21. Calabria – 150,2

Rispetto alla bozza circolata nei mesi precedenti, la Lombardia supera solo le Marche, che peggiorano la loro posizione passando dal quinto all’ottavo posto. Il Veneto, invece, conquista la prima posizione, dopo essere stato secondo lo scorso anno, mentre la Toscana avanza al secondo posto. L’Emilia-Romagna, prima nella precedente edizione, scivola in terza posizione.

Gli indicatori di valutazione

Il sistema di valutazione si basa su tre indicatori chiave:

1. Attività ospedaliera

Per quanto riguarda la qualità dell’assistenza ospedaliera, in testa troviamo la Provincia di Trento, seguita da Toscana e Veneto. La Lombardia si posiziona settima, un risultato sorprendente considerando che il sistema ospedaliero lombardo è spesso ritenuto un’eccellenza. Solo la Valle d’Aosta scende sotto i 60 punti in questo indicatore, dimostrando che il comparto ospedaliero, a livello nazionale, regge complessivamente bene.

2. Prevenzione sanitaria

Anche in questo settore è Trento a guidare la classifica, mentre in fondo troviamo Bolzano, Molise, Liguria, Abruzzo, Sicilia e Calabria, che presentano criticità nel garantire adeguati livelli di prevenzione.

3. Assistenza distrettuale e territoriale

Per quanto riguarda l’assistenza sul territorio, il Veneto si conferma al primo posto, seguito dalla Toscana. La Lombardia, invece, scivola fino all’undicesimo posto, segno che la sanità territoriale rappresenta ancora un punto critico per la Regione. Le difficoltà più rilevanti si riscontrano in Basilicata, Abruzzo, Sicilia, Calabria e Valle d’Aosta.

In totale, sono otto le Regioni considerate “insufficienti” in almeno uno degli indicatori, evidenziando così le disparità nel livello di assistenza offerto sul territorio nazionale.

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Malattie reumatologiche: oltre il luogo comune dei “Reumatismi”

Le malattie reumatologiche sono un insieme complesso di oltre 150 patologie che colpiscono non solo le articolazioni, ma anche muscoli, ossa e, in alcuni casi, organi interni. Spesso associate erroneamente all’invecchiamento o alle condizioni climatiche, queste malattie possono insorgere a qualsiasi età, anche nei bambini, e rappresentano la prima causa di disabilità nei paesi occidentali.

Un'espressione comune, una realtà complessa

Chi non ha mai sentito o pronunciato la frase «Ho i reumatismi» per descrivere dolori articolari spesso associati a freddo e umidità? In realtà, dietro questa espressione popolare si cela il vasto mondo delle malattie reumatologiche, che, dal punto di vista medico, non sono causate dalle condizioni atmosferiche e non si limitano a colpire solo le articolazioni, ma possono coinvolgere anche altri organi.

Secondo la Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia (FIRA), nel mondo occidentale una persona su sette soffre di una malattia reumatologica, rendendole la prima causa di disabilità. Tuttavia, un’indagine della Società Italiana di Reumatologia (SIR) ha rivelato che il 15% degli italiani non ha mai sentito parlare di queste patologie. Un altro falso mito è che siano legate esclusivamente all’invecchiamento: in realtà, possono insorgere a qualsiasi età, persino nei bambini.

Oltre 150 malattie reumatologiche

Le malattie reumatologiche comprendono circa 150 patologie, molte delle quali croniche. L’artrosi, la più diffusa, è più frequente con l’avanzare dell’età, ma altre condizioni, come l’artrite reumatoide, possono colpire in qualunque fase della vita, anche durante l’infanzia e l’adolescenza. Se insorgono prima dei 16 anni, vengono classificate come forme giovanili.

«Alcune di queste patologie sono rare, mentre altre, come l’artrite reumatoide, sono molto comuni» spiega Carlo Selmi, responsabile di Reumatologia e Immunologia Clinica all’IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano) e docente presso Humanitas University.

Sintomi comuni: dolore e infiammazione

Tutte le malattie reumatologiche hanno due elementi principali: dolore e infiammazione. Tuttavia, la loro proporzione varia in base alla patologia. Ad esempio:

  • Nell’artrosi e nella fibromialgia, il dolore è predominante.
  • Nell’artrite reumatoide o nel lupus eritematoso sistemico, prevale l’infiammazione.

Queste malattie interessano principalmente muscoli, ossa e articolazioni, ma molte sono sistemiche, ovvero possono coinvolgere anche polmoni, cuore e cute, con un impatto significativo sull’intero organismo.

Malattie reumatologiche e genere: perché le donne sono più colpite

Le malattie reumatologiche colpiscono in modo sproporzionato le donne, con una prevalenza del 90% nei casi di connettiviti e fibromialgia. Questo fenomeno è legato a due fattori:

  1. Ormoni sessuali, in particolare gli estrogeni, che influenzano il sistema immunitario. Se da un lato possono proteggere dall’infiammazione, dall’altro, in alcune malattie come il lupus, possono favorirne lo sviluppo.
  2. Maggiore reattività del sistema immunitario nelle donne, che le rende più resistenti alle infezioni, ma anche più suscettibili alle malattie autoimmuni.

Dove colpiscono le malattie reumatologiche

I sintomi variano in base alla sede colpita:

  • Articolazioni → Dolore, gonfiore, rigidità e, se non trattate, deformazioni.
  • Pelle → Arrossamenti, lesioni o ulcere.
  • Organi interni → Problemi respiratori o renali.

Molte di queste patologie hanno una base autoimmune, ovvero derivano da un errore del sistema immunitario, che attacca i tessuti sani. Altre sono autoinfiammatorie, come l’artrite da gotta, causata dall’accumulo di acido urico nelle articolazioni.

Artrosi e fibromialgia: quando il sistema immunitario non è coinvolto

Non tutte le malattie reumatologiche sono di origine immunitaria. Ad esempio:

  • L’artrosi è dovuta all’usura delle articolazioni.
  • La fibromialgia è legata a un’alterazione della percezione del dolore nel sistema nervoso.

Queste patologie richiedono trattamenti diversi rispetto alle malattie autoimmuni.

Genetica e stili di vita: fumo e alimentazione contano

Le malattie reumatologiche hanno una componente genetica, ma alcuni fattori ambientali possono aumentarne il rischio:

  • Fumo → Accresce il rischio di artrite reumatoide.
  • Obesità → Aggrava i sintomi e riduce l’efficacia dei farmaci.
  • Dieta mediterranea → Ricca di frutta, verdura, legumi e olio d’oliva, può avere un effetto protettivo.

Secondo Carlomaurizio Montecucco, docente all’Università di Pavia, questi fattori influenzano anche la risposta ai farmaci, rendendo alcune forme di artrite più difficili da trattare.

Microbiota intestinale e malattie reumatologiche

Un settore emergente della ricerca riguarda il microbiota intestinale, ovvero l’insieme di batteri e microrganismi che vivono nell’intestino. Alterazioni del microbiota (disbiosi) possono favorire l’infiammazione e contribuire allo sviluppo delle malattie reumatologiche.

«Ripristinare l’equilibrio del microbiota attraverso dieta, probiotici o trapianto di microbiota potrebbe diventare una nuova strategia terapeutica», spiega Selmi.

Attività fisica: un’alleata contro il dolore

L’esercizio fisico è fondamentale anche per chi soffre di malattie reumatologiche. Secondo Selmi, non esistono controindicazioni assolute alla pratica sportiva, a meno che non ci siano problemi cardiaci o articolari gravi.

Attività come il nuoto e discipline a basso impatto possono ridurre il dolore e migliorare la qualità della vita. Inoltre, lo sport ha effetti benefici anche sul microbiota intestinale.

Salute articolare e igiene orale

Un legame sorprendente esiste tra la salute orale e le malattie reumatologiche. Il batterio Porphyromonas gingivalis, responsabile della parodontite, è in grado di modificare alcune proteine, rendendole “estranee” al sistema immunitario. Questo processo può innescare una risposta autoimmune e favorire lo sviluppo dell’artrite reumatoide.

Un’accurata igiene dentale e la cura della parodontite possono quindi ridurre il rischio di sviluppare questa malattia.

Inquinamento: un fattore di rischio sottovalutato

L’inquinamento atmosferico è stato associato a un aumento delle malattie reumatologiche, in particolare l’artrite reumatoide. Il particolato fine (PM2.5) può stimolare una risposta infiammatoria e attivare il sistema immunitario in modo anomalo.

Montecucco sottolinea che gli effetti degli inquinanti variano a seconda della predisposizione genetica, ma la loro riduzione potrebbe contribuire a prevenire molte patologie autoimmuni.

Conclusione: prevenzione e diagnosi precoce

Sebbene le malattie reumatologiche non possano essere completamente prevenute, adottare uno stile di vita sano, fare esercizio fisico e monitorare la salute possono fare la differenza. La diagnosi precoce è cruciale per gestire al meglio queste patologie e migliorare la qualità della vita dei pazienti.

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La mano bioibrida con tessuto muscolare umano

Avete presente il sushi, con la sua serie di ingredienti variamente composti tra loro fino a formare un’unità composita capace di solleticare il palato? Ebbene, fatte le dovute proporzioni in termini di ricerca e tecnologia, la stessa strategia “costruttiva” fatta di fogli sovrapposti e poi arrotolati assieme fino a creare un vero e proprio fascio muscolare potrebbe essere alla base di una mano robotica bioibrida per il futuro.

Lo studio delle università giapponesi

A suggerire questa ipotesi è una ricerca condotta da esperti delle Università di Tokyo e Waseda, in Giappone, pubblicata su Science Robotics.

L’approccio del sushi è stato impiegato per assemblare sottili fili di tessuto muscolare coltivato in laboratorio, successivamente riaccoppiati tra loro in rotoli fino a formare veri e propri fasci muscolari in grado di contrarre le dita.

Questi aggregati, denominati tecnicamente MuMuTa, fanno pensare a possibili arti bioibridi per il futuro.

Attualmente, la ricerca è ancora in fase di laboratorio, ma questa tecnologia potrebbe rivelarsi di grande importanza non solo nel settore delle protesi, ma anche per lo studio di nuovi farmaci che agiscono sul tessuto muscolare.

Come funziona la mano bioibrida

Lo studio evidenzia come la mano sia costruita a partire da una struttura di plastica stampata in 3D, sulla quale vengono integrati tendini costituiti da tessuto muscolare.

L’innovazione principale sta nelle dimensioni e nelle funzionalità della protesi. Il prototipo sviluppato ha una lunghezza di 18 centimetri, superando i dispositivi precedenti.

Inoltre, presenta dita multiarticolate che possono essere mosse individualmente per eseguire gesti o in combinazione per manipolare oggetti.

La strategia del “sushi” per costruire ogni tendine, partendo da tessuto muscolare cresciuto in laboratorio, ha consentito di ottenere questi risultati.

I MuMuTa vengono stimolati elettricamente tramite cavi impermeabili.

Per testare le capacità della mano, il team ha eseguito movimenti come il gesto a forbice, contrarre il mignolo, l’anulare e il pollice, oltre a valutare le capacità delle singole dita.

I risultati dimostrano che il prototipo è in grado di riprodurre diverse azioni grazie alla flessibilità delle dita multiarticolate.

Le difficoltà da superare

Nonostante i progressi, questa tecnologia presenta ancora alcune sfide.

Un ostacolo significativo è la potenziale necrosi del tessuto muscolare sviluppato in laboratorio, soprattutto nelle porzioni centrali dei fasci muscolari di grandi dimensioni, che possono avere difficoltà a ricevere un’adeguata nutrizione.

Per superare questo problema, si è optato per l’uso di più fasci muscolari sottili raggruppati insieme, creando tendini con una capacità di contrazione e una robustezza adeguate.

Un’altra sfida riguarda la necessità di mantenere la mano sospesa in un liquido per ridurre l’attrito e consentire il movimento libero delle dita.

Inoltre, al momento le dita non possono essere riportate intenzionalmente nella posizione iniziale dritta, ma lo fanno fluttuando.

Per migliorare il controllo del movimento, una possibile soluzione potrebbe essere l’aggiunta di un materiale elastico o di MuMuTa sul dorso delle dita, che si contraggano nella direzione opposta.

La resistenza del tessuto muscolare

Uno degli aspetti più interessanti emersi dalla ricerca riguarda la risposta dei tessuti muscolari ingegnerizzati alla stimolazione elettrica.

Come spiega Shoji Takeuchi dell’Università di Tokyo, «la creazione dei MuMuTa ci ha permesso di superare la nostra sfida più grande, ovvero garantire una forza contrattile e una lunghezza nei muscoli sufficienti per guidare la grande struttura della mano».

Tuttavia, i ricercatori hanno osservato che la forza contrattile dei tessuti diminuisce dopo circa 10 minuti di stimolazione elettrica, mostrando segni di affaticamento. Sorprendentemente, il recupero avviene nel giro di un’ora di riposo, un comportamento simile a quello dei muscoli biologici umani.

Prospettive future

La mano robotica bioibrida rappresenta un’importante evoluzione nel campo della robotica e delle protesi.

Seppur ancora in fase sperimentale, i risultati ottenuti suggeriscono la possibilità di sviluppare arti artificiali sempre più sofisticati e simili a quelli naturali.

Con ulteriori miglioramenti, questa tecnologia potrebbe avere un impatto significativo non solo nella protesica, ma anche in ambiti medici e farmacologici, aprendo nuove strade per la ricerca e l’innovazione nel settore.

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La mobilità sanitaria in Italia: un Nord ricco e un Sud penalizzato

La mobilità sanitaria in Italia evidenzia un divario sempre più ampio tra Nord e Sud, con oltre 5 miliardi di euro che ogni anno finanziano cure fuori Regione.  Questo fenomeno, che inizialmente riguardava cure d’eccellenza, oggi coinvolge anche prestazioni di routine, aggravando le disuguaglianze nell’accesso alla sanità pubblica. 

Un disequilibrio da 5 miliardi di Euro

La bilancia della mobilità sanitaria italiana pende nettamente a favore del Nord, che beneficia di oltre 5 miliardi di euro derivanti dai pazienti del Sud costretti a migrare per ricevere cure adeguate.

Questo flusso, quasi totalmente a senso unico, è determinato dalla presenza di centri d’eccellenza in alcune Regioni settentrionali, mentre il Meridione fatica a garantire servizi sanitari efficienti.

Il divario tra Nord e Sud si sta ampliando, con un impatto significativo sulla qualità dell’assistenza sanitaria nazionale.

Chi guadagna e chi perde nella mobilità sanitaria

Le Regioni settentrionali, in particolare Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, concentrano il 94,1% della mobilità attiva, ossia l’afflusso di pazienti da altre Regioni.

Al contrario, il 78,8% delle risorse perse proviene da Abruzzo, Calabria, Campania, Sicilia, Lazio e Puglia, che registrano un saldo negativo pesante.

Secondo i dati della Fondazione Gimbe, nel 2022 la spesa per la mobilità sanitaria ha raggiunto i 5,04 miliardi di euro, segnando un aumento del 18,6% rispetto ai 4,25 miliardi del 2021.

Un incremento che non può essere attribuito solo agli effetti della pandemia, ma che riflette una crescente disparità nell’offerta dei servizi sanitari regionali.

Non più una scelta, ma una necessità

Secondo il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, la mobilità sanitaria non è più una libera scelta del cittadino, ma una necessità dettata dalle profonde disuguaglianze nell’accesso alle cure.

Sempre più italiani sono costretti a spostarsi per ricevere trattamenti anche di routine, come una frattura di femore, non solo per cure d’avanguardia in centri specializzati.

Questo comporta un peso economico, psicologico e sociale significativo per i pazienti e le loro famiglie.

Sanità Pubblica vs Privata

Oltre la metà delle risorse destinate alla mobilità sanitaria va al settore privato accreditato.

L’indagine Gimbe rivela che 1,879 miliardi di euro (pari al 54,4% della spesa totale) sono stati spesi in strutture private, contro 1,573 miliardi destinati agli ospedali pubblici del Servizio Sanitario Nazionale.

Questo evidenzia come la sanità privata stia intercettando una fetta sempre più rilevante delle cure fuori Regione, aggravando ulteriormente le disparità.

Diritto alla salute a rischio

Le implicazioni di questa situazione sono allarmanti.

La mobilità sanitaria riflette le enormi disparità regionali nel diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione.

Cartabellotta sottolinea la necessità di interventi urgenti per riequilibrare il sistema e garantire a tutti i cittadini italiani cure adeguate, indipendentemente dalla Regione di residenza.

Tuttavia, il rischio di un ulteriore peggioramento è concreto, soprattutto con l’introduzione dell’autonomia differenziata, che potrebbe cristallizzare le disuguaglianze esistenti.

Regioni in attivo e in passivo

Lombardia (22,8%), Emilia-Romagna (17,1%) e Veneto (10,7%) attraggono il maggior numero di pazienti da fuori Regione, seguite da Lazio, Piemonte e Toscana.

Al contrario, le Regioni che registrano i maggiori debiti per cure erogate altrove sono Lazio (11,8%), Campania (9,6%) e Lombardia (8,9%), ciascuna con un saldo negativo superiore ai 400 milioni di euro.

Nel dettaglio:

  • Regioni con saldo positivo:
  • Lombardia (+623,6 milioni),
  • Emilia-Romagna (+525,4 milioni),
  • Veneto (+198,2 milioni).

 

  • Regioni con saldo negativo:
  • Campania (-308,4 milioni),
  • Calabria (-304,8 milioni),
  • Sicilia (-241,8 milioni),
  • Puglia (-230,2 milioni),
  • Lazio (-193,4 milioni),
  • Abruzzo (-104,1 milioni).

La correlazione tra qualità dei servizi e mobilità sanitaria

Dai dati emerge che le Regioni con una mobilità sanitaria attiva più elevata sono anche quelle con migliori performance nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea).

Le prime cinque Regioni per punteggio totale Lea rientrano tra le prime sei per saldo positivo della mobilità sanitaria, mentre quasi tutte le Regioni con un Lea inferiore alla media nazionale registrano saldi negativi.

Questo conferma che la qualità dell’assistenza influisce direttamente sul fenomeno della migrazione sanitaria.

Il Trend rischia di peggiorare

Nonostante i dati analizzati si riferiscano al 2022, la situazione nel 2023 non mostra segnali di miglioramento.

Secondo l’ultimo report di Agenas, solo per i ricoveri ospedalieri la mobilità ha già superato i 3 miliardi di euro.

Le iniziative del Governo, come gli accordi tra Regioni confinanti per limitare la migrazione sanitaria, sono ancora scarse e non producono effetti immediati.

Fattori che aumentano la mobilità sanitaria

Oltre alle differenze nell’offerta sanitaria, vi sono altri fattori che contribuiscono all’aumento della mobilità.

Ad esempio, alcuni specialisti lavorano in Regioni con servizi sanitari più deboli, come la Calabria e la Puglia, per poi spostarsi nei grandi ospedali del Nord, trascinando con sé i pazienti.

Inoltre, la presenza di strutture ambulatoriali al confine tra due Regioni spesso attira pazienti da aree limitrofe, incrementando ulteriormente il flusso di mobilità sanitaria..

Approvata la legge Toscana sul fine vita

La Regione Toscana ha approvato una legge innovativa sul fine vita, la prima in Italia a disciplinare le procedure per il suicidio medicalmente assistito. Il provvedimento, nato da un’iniziativa popolare, ha suscitato ampio dibattito politico e sociale.

Il voto in Consiglio Regionale

Con 27 voti a favore e 13 contrari, il Consiglio regionale della Toscana ha approvato la legge sul fine vita, la prima in Italia a disciplinare le procedure sanitarie per l’accesso al suicidio medicalmente assistito.

La legge nasce da un’iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni.

A favore hanno votato Partito Democratico (con una consigliera astenuta), Italia Viva, Movimento 5 Stelle e il gruppo Misto.

Hanno espresso voto contrario Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega.

Il quadro giuridico

La normativa si inserisce in un contesto nazionale privo di una legge specifica sul suicidio assistito, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale 242/2019 abbia eliminato la punibilità per chi presta aiuto al suicidio di un malato che si trovi in determinate condizioni.

In questo scenario, si pone il quesito: le Regioni possono legiferare autonomamente in materia?

Il Partito Democratico, alla guida della Giunta regionale, ritiene di sì e ha approvato una legge di iniziativa popolare che disciplina “procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per l’effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019”.

Se la norma sarà confermata, sarà la prima legge in Italia a regolamentare il fine vita.

Le verifiche necessarie

La sentenza della Corte Costituzionale stabilisce che, per poter accedere al suicidio medicalmente assistito, il Servizio sanitario nazionale deve effettuare due tipi di verifica:

  • Le condizioni del malato: deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetto da una patologia irreversibile che gli causa sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili, e deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

  • Le modalità di esecuzione del suicidio: il tutto deve essere sottoposto al parere del comitato etico territoriale.

La proposta di legge toscana mira a definire ruoli, tempi e procedure di competenza regionale, così come delineato dalla Corte Costituzionale.

Le divisioni politiche e le critiche

L’approvazione della legge ha generato malumori e divisioni, anche all’interno del Partito Democratico, soprattutto tra i membri di ispirazione cattolica.

Forza Italia, attraverso il consigliere regionale Marco Stella, ha presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità.

Fratelli d’Italia ha espresso una chiara opposizione, mentre la Lega sembra orientata a lasciare libertà di voto ai propri membri.

Anche alcuni costituzionalisti hanno sollevato perplessità, temendo che l’assenza di una legge nazionale possa portare a disparità di trattamento tra le diverse regioni.

Inoltre, la Conferenza Episcopale Toscana è intervenuta con una dichiarazione in cui ribadisce che “la vita umana è un valore assoluto, tutelato anche dalla Costituzione: non c’è un ‘diritto di morire’, ma il diritto di essere curati, e il Sistema sanitario esiste per migliorare le condizioni della vita e non per dare la morte”.

Per placare le tensioni, la commissione del Consiglio regionale ha introdotto alcuni emendamenti al testo e ulteriori modifiche saranno discusse in aula.

Commissione medica e copertura dei costi

La legge stabilisce la creazione di una commissione medica multidisciplinare all’interno delle aziende sanitarie, incaricata di valutare se il paziente soddisfa i requisiti per accedere al trattamento. Inoltre, il costo del farmaco necessario sarà coperto dalla Regione.

Per quanto riguarda le tempistiche:

  • La procedura di verifica dovrà concludersi entro 30 giorni, con possibilità di sospensione per un massimo di 5 giorni.

  • In caso di esito positivo, la Commissione avrà 10 giorni per definire le modalità di attuazione del suicidio.

  • Il termine massimo per la conclusione del procedimento è di 45 giorni.

Sul piano finanziario, un emendamento della maggioranza prevede uno stanziamento di 10.000 euro all’anno per il triennio 2025-2027, destinato all’attuazione delle prestazioni legate al suicidio medicalmente assistito.

Conclusioni

L’approvazione della legge toscana sul fine vita rappresenta un passo storico in Italia, ma il dibattito rimane acceso sia sul piano politico che etico.

Mentre alcuni vedono nella normativa un’importante conquista per l’autodeterminazione del malato, altri temono che l’assenza di una disciplina nazionale possa generare disomogeneità e contrasti giuridici.

La questione resta aperta e il futuro della legge dipenderà anche dalle eventuali impugnazioni e dai successivi sviluppi normativi a livello nazionale.

Tutti convocati in difesa del nostro cuore

Le malattie cardiovascolari rappresentano una delle principali cause di morte in Italia e nel mondo. Tuttavia, la percezione del rischio è ancora troppo bassa tra i cittadini. Per affrontare questa sfida, nasce “Al cuore della prevenzione/CVrisk-IT”, un progetto innovativo che coinvolge 30.000 cittadini e punta a migliorare la prevenzione cardiovascolare attraverso la ricerca scientifica. 

Il più grande progetto di ricerca cardiovascolare in Italia

Trentamila cittadini, da Bolzano alla Sicilia, potranno partecipare a “Al cuore della prevenzione/CVrisk-IT”, il più grande progetto di ricerca sul rischio cardiovascolare mai realizzato in Italia.

Finanziato dal Parlamento tramite il ministero della Salute con 20 milioni di euro e previsto dalla legge di bilancio del 2023, il progetto mira a ottenere una fotografia dettagliata dello stato di salute del cuore degli italiani.

La rete degli Irccs e l'obiettivo del progetto

Il progetto è guidato dalla rete dei 17 Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs) del ministero della Salute, che fungeranno da centri hub, supportati da altri 30 ospedali.

L’iniziativa combina ricerca scientifica e prevenzione, con l’obiettivo di ridurre le liste d’attesa e i costi sanitari legati ai ricoveri per patologie cardiovascolari.

Ogni anno, in Italia, si registrano 1.500 dimissioni ospedaliere per motivi cardiovascolari ogni 100.000 abitanti, un dato che incide pesantemente sulle degenze e sulle giornate lavorative perse.

Chi può partecipare e come candidarsi

Per partecipare, occorre soddisfare tre requisiti: essere sani, avere un’età compresa tra i 40 e gli 80 anni e non avere una diagnosi pregressa di malattia cardiovascolare o diabete.

La candidatura è semplice: basta collegarsi al sito della Rete cardiologica Irccs e compilare il format per manifestare interesse.

Dopo la verifica dei requisiti, si potrà entrare nel vivo dello studio, che prevede una presa in carico completamente gratuita sostenuta dal Servizio sanitario nazionale.

Il percorso dello studio e i benefici per la prevenzione

Il progetto si articola in due fasi: i partecipanti saranno valutati per 12 mesi attraverso i più avanzati modelli di predizione del rischio cardiovascolare.

Coloro che presenteranno un rischio “molto alto” riceveranno un trattamento standard basato sulle linee guida cliniche, mentre gli altri saranno assegnati a nuovi approcci metodologici, ricevendo consulenze personalizzate sullo stile di vita.

L’obiettivo è duplice: avanzare la ricerca scientifica e mettere in campo una massiccia operazione di prevenzione cardiovascolare.

Un’iniziativa necessaria, considerando che le malattie del cuore rappresentano la principale causa di morte sia nel mondo che in Italia, con un’incidenza del 30,8%.

Tuttavia, la percezione del rischio cardiovascolare tra gli italiani è ancora bassa: il 54% non si ritiene a rischio e solo la metà della popolazione adotta misure preventive come un’alimentazione sana (50%) e attività fisica regolare (39%), mentre appena il 18% si sottopone a controlli periodici.

L’innovazione del progetto CVrisk-IT

L’innovazione del progetto è spiegata da Lorenzo Menicanti, presidente della Rete degli Irccs cardiologici e direttore scientifico dell’Irccs Policlinico San Donato: «Il nostro primo obiettivo è realizzare una profilazione del rischio della popolazione italiana, mai effettuata prima d’ora. Inoltre, vogliamo comprendere quali fattori abbiano il maggiore impatto nell’evoluzione del rischio cardiovascolare».

I partecipanti saranno sottoposti a ecografie della carotide per individuare eventuali patologie, TAC per valutare la presenza di calcificazioni e, elemento innovativo, un’indagine genetica, nel rispetto delle stringenti normative italiane sulla privacy.

Menicanti sottolinea l’importanza di coinvolgere i cittadini nella prevenzione: «Se ognuno conosce esattamente il proprio rischio, l’approccio alla prevenzione cambia radicalmente».

La validazione scientifica e la piattaforma MyCardioSpace

Prima del lancio definitivo, il programma è stato sottoposto alla validazione di esperti internazionali.

Ambra Cerri, Chief Project Manager, spiega che il protocollo di studio è stato già approvato da alcuni Comitati etici territoriali e integra soluzioni innovative per ottimizzare la gestione operativa.

Inoltre, è stata sviluppata una piattaforma informatica avanzata, MyCardioSpace, che facilita la raccolta e l’uso scientifico dei dati, mettendo al centro il cittadino.

L’iniziativa è supervisionata dal ministero della Salute, che la considera un modello innovativo di interazione con le persone.

Graziano Lardo, direttore generale Ricerca e Innovazione, evidenzia come l’inserimento dei dati genetici e la creazione di una biobanca saranno elementi cruciali per la ricerca futura.

Il campione di nuoto Filippo Magnini testimonial del progetto

A sostenere il progetto come testimonial è il campione di nuoto Filippo Magnini, due volte campione mondiale nei 100 metri stile libero.

Magnini lancia un messaggio chiaro: «La prevenzione è fondamentale per tutti noi, per vivere più sereni e per aiutare la ricerca a progredire. Nessuno può dirsi esente dalle malattie del cuore, quindi controllatevi e candidatevi per far parte dei 30.000 partecipanti.

Scoprirete che vale la pena consigliare questa opportunità anche alle persone che amate». Secondo Magnini, CVrisk-IT rappresenta un’opportunità unica per i cittadini di accedere gratuitamente a un programma di prevenzione cardiovascolare di altissimo livello.

Sindrome del Tunnel Carpale: Cause, Sintomi e Rimedi

La sindrome del tunnel carpale (STC) è una neuropatia periferica che colpisce il nervo mediano nel polso, compromettendo la funzionalità della mano. In questo articolo troverai informazioni su cause, sintomi, diagnosi, trattamenti e consigli utili per prevenire e gestire questa condizione.

Che cos’è il tunnel carpale?

Il tunnel carpale è uno stretto passaggio situato nel polso, attraverso il quale scorrono il nervo mediano e i tendini flessori delle dita.

È delimitato dalle ossa carpali e dal legamento trasverso del carpo.

Questa struttura anatomica gioca un ruolo cruciale nella funzionalità della mano, ma la sua conformazione la rende suscettibile a compressioni nervose che generano la cosiddetta “sindrome del tunnel carpale” (STC).

Incidenza della sindrome del tunnel carpale

In Italia, circa il 3-4% della popolazione adulta soffre di questa patologia, con una maggiore incidenza nelle donne tra i 40 e i 60 anni.

La STC è più frequente in persone che svolgono lavori ripetitivi con le mani, come l’uso del computer, artigiani e atleti che praticano sport che sollecitano il polso.

Inoltre, la sindrome può essere associata a condizioni come gravidanza, diabete e artrite reumatoide.

Sintomi principali

Il disturbo si manifesta principalmente con:

  • Formicolii e intorpidimento: Interessano le prime tre dita della mano.
  • Dolore: Talvolta si estende all’avambraccio, con un peggioramento dei sintomi durante la notte.
  • Debolezza e difficoltà motorie: Problemi nella presa e nei movimenti fini.

Il freddo può accentuare i sintomi a causa della vasocostrizione, aumentando la compressione del nervo.

Tuttavia, con precauzioni come l’uso di guanti termici, esercizi di riscaldamento e pause regolari, non è necessario evitare del tutto gli sport invernali.

Diagnosi della sindrome

L’inquadramento diagnostico si basa su:

  • Esame clinico: Valutazione della sensibilità, forza e riflessi della mano.
  • Test strumentali: Elettromiografia, ecografia o risonanza magnetica del polso.

Un approccio innovativo è rappresentato dalla valutazione biomeccanica, che studia il movimento e le forze che agiscono sul corpo.

I sensori inerziali, strumenti miniaturizzati e non invasivi, permettono una diagnosi precoce, monitoraggio e gestione della STC, nonché supporto alla riabilitazione post-chirurgica.

Trattamenti disponibili

La cura della sindrome del tunnel carpale può essere:

  • Conservativa: Include riposo, immobilizzazione del polso, esercizi di stretching, farmaci antinfiammatori e iniezioni di corticosteroidi.
  • Chirurgica: Si effettua una decompressione del tunnel carpale, con tecniche endoscopiche o a cielo aperto. Dopo l’intervento è necessaria una riabilitazione per recuperare la funzionalità della mano.

Strategie di prevenzione

Per ridurre il rischio di sviluppare la STC, è utile adottare alcune precauzioni:

  • Postura corretta: Lavorare con monitor all’altezza degli occhi, spalle rilassate e polsi in posizione neutra.
  • Attrezzature ergonomiche: Utilizzare tastiere, mouse e sedie adeguati.
  • Pause e stretching: Fare brevi pause ogni 30-60 minuti per eseguire esercizi di allungamento per mani e polsi.
  • Supporti per il polso: Indossare tutori durante la notte o attività prolungate.

Con questi accorgimenti, è possibile ridurre il rischio di insorgenza della sindrome e migliorare il benessere generale durante le attività quotidiane.

Fonte: